Giovanni Verga
ROSSO MALPELO
TRATTA DA:
Verga: I
grandi romanzi e tutte le novelle
(edizione integrale)
a cura di Concetta Greco Lanza
Newton Compton editori s.r.l.
I Mammut n. 5 (gennaio 1992)
Edizione elettronica a cura di Stefano D'Urso
Liber Liber, 1996
Da Vita dei campi, 1880
"Malpelo" si chiamava così
perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo
malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché
tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano "Malpelo"; e persino
sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo
nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto
il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e
siccome era "malpelo" c'era anche a temere che ne sottraesse un paio,
di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la
ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva
confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi
per "Malpelo", un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo
davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi
piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo,
torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai
della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di
ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi
quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la
sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo
rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava
caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso
e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel
capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la
bettonica per tutto "Monserrato" e la "Caverna", tanto che
la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di "Malpelo"», e cotesto
al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e
perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato aveva
voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra
volta per sostegno dell'"ingrottato", e dacché non serviva più, s'era
calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro
Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del
lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva
potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo
chiamavano mastro Misciu "Bestia", ed era l'asino da basto di tutta
la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il
pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar
brighe. "Malpelo" faceva un visaccio, come se quelle soperchierie
cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate
che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come
tuo padre -.
Invece nemmen suo padre ci morì, nel
suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo "sciancato",
aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto
era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a
badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato.
Dunque il sabato sera mastro Misciu
raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e
tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di
divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non
fare la "morte del sorcio". Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non
dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa
in pieno, e intanto borbottava:
- Questo è per il pane! Questo pel
vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del
come avrebbe speso i denari del suo "appalto", il cottimante!
Fuori della cava il cielo
formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un
arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e
si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse "ohi!"
anch'esso. "Malpelo" andava sgomberando il terreno, e metteva al
sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.
Il padre, che gli voleva bene,
poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se
cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un
tratto, punf! "Malpelo", che si era voltato a riporre i ferri nel
corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si
sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L'ingegnere che dirigeva i lavori
della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua
poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di "Malpelo"
che aveva fatto la "morte del sorcio". Tutte le femminucce di
Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran
disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse
nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando
gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa
tre ore, e Misciu "Bestia" doveva già essere bell'e arrivato in
Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il
buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo "sciancato" disse che a
sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era
caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe
impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire
delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro "Bestia"!
Nessuno badava al ragazzo che si
graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.
- To'! - disse infine uno. - È
"Malpelo"! Di dove è saltato fuori, adesso?
- Se non fosse stato
"Malpelo" non se la sarebbe passata liscia... -
"Malpelo" non rispondeva
nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la
buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume,
gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla
bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani
tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non
potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo
pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo
qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano;
giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua
e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento,
quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre
scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi
stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo
gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta.
In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava
quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse "grazia di Dio".
Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli
dà il pane, e le botte, magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento,
sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di "Malpelo"; ei lo
picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:
- Così creperai più presto! -
Dopo la morte del babbo pareva che
gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci
che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era
"malpelo", ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile,
e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino
si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre
che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio
come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a
modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si
volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero
fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a
rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto
subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era
solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano
"Bestia", perché egli non faceva così! - E una volta che passava il
padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque
tarì! - E un'altra volta, dietro allo "Sciancato": - E anche lui! e
si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! -
Per un raffinamento di malignità
sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da
poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il
femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo
corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome
"Ranocchio"; ma lavorando sotterra, così "Ranocchio"
com'era, il suo pane se lo buscava. "Malpelo" gliene dava anche del
suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento
modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se
"Ranocchio" non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore
accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di
difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il
viso da questo e da quello! -
O se "Ranocchio" si asciugava
il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il
dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino
carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli,
rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva
senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli
stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le
battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi,
e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle
gambe. "Malpelo" soleva dire a "Ranocchio": - L'asino va
picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe
sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.
Oppure: - Se ti accade di dar delle
busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da
conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.
Lavorando di piccone o di zappa poi
menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e
batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli "ah! ah!" che
aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva a "Ranocchio"
sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la
faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo "Sciancato",
allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva
altro che la rena, perciò lo chiamavano "Bestia", e la rena se lo
mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -.
Ogni volta che a
"Ranocchio" toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava
a guisa di una femminuccia, "Malpelo" lo picchiava sul dorso, e lo
sgridava: - Taci, pulcino! - e se "Ranocchio" non la finiva più, ei
gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più
forte di te -. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di
mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci
sono avvezzo -.
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni,
alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi
ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena
rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il
padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di
busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla.
Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche
tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si
pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se
non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai:
per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come "Ranocchio"
spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei
ripeteva: - A che giova? Sono "malpelo"! - e nessuno avrebbe potuto
dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio
o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse
salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai
una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a
casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei
cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico
della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare
il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era
sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul
suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli
altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o
per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar
randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre
povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi
dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli
piacevano.
La vedova di mastro Misciu era
disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era
ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle
sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e
scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e
selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso
e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel
mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che
ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle
cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il
pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono.
Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per
portarli alla "Plaja", a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da
fare laggiù sono ancora buoni; e "Malpelo", certo, non valeva di più;
se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per
aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di
fare il manovale, come "Ranocchio", e lavorare cantando sui ponti, in
alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere,
come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi
sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per
le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il
contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti
carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa.
Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui.
E pensando a tutto ciò, narrava a "Ranocchio" del pilastro che era
caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il
carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle
stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe
trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno
quasi nuovi. "Ranocchio" aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era
stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si
sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva
le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle
gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove
potevano vedere la "sciara" nera e desolata, sporca di ginestre
riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti
nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo
spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida
disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i
corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal
tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino
che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i
calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici
affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si
era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava
curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il
"Bestia" di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa,
"Malpelo" fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche
il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela
dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della
galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo
scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso
bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar
molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e
l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro
"Bestia" avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella
rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.
- Proprio come suo figlio
"Malpelo"! - ripeteva lo "sciancato" - ei scavava di qua,
mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la
ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il
cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli
asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno,
e di "carne battezzata". La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia,
e li adattò a "Malpelo", il quale così fu vestito quasi a nuovo per
la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse
cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della
sorella non le aveva volute le scarpe del morto.
"Malpelo" se li lisciava
sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci
e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque
fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul
saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le
pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una
accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento
nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel
cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane,
"Malpelo"! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del
padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando
gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi,
egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel
manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e
lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo
era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era
andato a buttarlo lontano nella "sciara".
- Così si fa, - brontolava
"Malpelo"; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.
Egli andava a visitare il carcame
del "grigio" in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche
"Ranocchio", il quale non avrebbe voluto andarci; e
"Malpelo" gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere
in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità
di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a
disputarsi le carni del "grigio". I cani scappavano guaendo, come
comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il
"Rosso" non lasciava che "Ranocchio" li scacciasse a
sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue
sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle
costole al "grigio"? Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne
stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si
divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche;
i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un
pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in
corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose!
Anche il "grigio" ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche;
anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi,
aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più!
non più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi
e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse
mai nato sarebbe stato meglio -.
La "sciara" si stendeva
malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in
picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello
che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di
coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta "Malpelo" ripeteva che
la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte
e verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e
n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la candela,
aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.
- Egli solo ode le sue stesse grida!
- diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della
"sciara", trasaliva.
- Il padrone mi manda spesso lontano,
dove gli altri hanno paura d'andare. Ma io sono "Malpelo", e se non
torno più, nessuno mi cercherà -.
Pure, durante le belle notti
d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla "sciara", e la
campagna circostante era nera anch'essa, come la lava, ma "Malpelo",
stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il
cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le
notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna
qua e là vagamente - perché allora la "sciara" sembra più bella e
desolata.
- Per noi che siamo fatti per vivere
sotterra, - pensava "Malpelo", - dovrebbe essere buio sempre e da per
tutto -.
La civetta strideva sulla
"sciara", e ramingava di qua e di là; ei pensava:
- Anche la civetta sente i morti che
son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -.
"Ranocchio" aveva paura
delle civette e dei pipistrelli; ma il "Rosso" lo sgridava, perché
chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l'asino
grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non
sentivano più il dolore di esser mangiate.
- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti
come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti
tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né
dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in
compagnia dei morti -.
"Ranocchio" invece provava
una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in
alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti
che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te
l'ha detto? - domandava "Malpelo", e "Ranocchio" rispondeva
che glielo aveva detto la mamma.
Allora "Malpelo" si
grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio
malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni,
tu dovresti portar la gonnella -.
E dopo averci pensato un po':
- Mio padre era buono, e non faceva
male a nessuno, tanto che lo chiamavano "Bestia". Invece è là sotto,
ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso
io -.
Da lì a poco, "Ranocchio",
il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano
portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre
come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo "non ne avrebbe
fatto osso duro" a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza
lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. "Malpelo" allora si sentiva
orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria
malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava "Ranocchio" sulle
spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una
volta, nel picchiarlo sul dorso, "Ranocchio" fu colto da uno sbocco
di sangue; allora "Malpelo" spaventato si affannò a cercargli nel
naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto
fargli poi gran male, così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava
dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì
presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su
di un tamburo, eppure "Malpelo" non si mosse, e soltanto dopo che
l'operaio se ne fu andato, aggiunse:
- Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E
ha picchiato più forte di me, ti giuro! -
Intanto "Ranocchio" non
guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni.
Allora "Malpelo" prese dei soldi della paga della settimana, per
comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi
nuovi, che lo coprivano meglio. Ma "Ranocchio" tossiva sempre, e
alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il
ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo
dinanzi alla fiammata. "Malpelo" se ne stava zitto ed immobile, chino
su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci
spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere
sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come
quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la
viottola, egli borbottava:
- È meglio che tu crepi presto! Se
devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! -
E il padrone diceva che
"Malpelo" era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e
bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì
"Ranocchio" non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani,
perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro.
"Malpelo" si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a
trovarlo. Il povero "Ranocchio" era più di là che di qua; sua madre
piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano
dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo
"Malpelo", e domandò a "Ranocchio" perché sua madre
strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel
che si mangiava. Ma il povero "Ranocchio" non gli dava retta;
sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto. Allora il
"Rosso" si diede ad almanaccare che la madre di "Ranocchio"
strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e
malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli
invece era stato sano e robusto, ed era "malpelo", e sua madre non
aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che
"Ranocchio" era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva
anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del
"grigio", nel burrone dove solevano andare insieme con
"Ranocchio". Ora del" grigio" non rimanevano più che le
ossa sgangherate, ed anche di "Ranocchio" sarebbe stato così. Sua
madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di
"Malpelo" s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e
adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla
figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo
battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe
divenuto come il "grigio" o come "Ranocchio", non avrebbe
sentito più nulla.
Verso quell'epoca venne a lavorare
nella cava uno che non s'era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva.
Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo
pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. "Malpelo"
seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i
ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati
a vista.
Da quel momento provò una malsana
curiosità per quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo
poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di
quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la
vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi
suoi piedi.
- Allora perché tutti quelli che
lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò
"Malpelo".
- Perché non sono
"malpelo" come te! - rispose lo "Sciancato". - Ma non
temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! -
Invece le ossa le lasciò nella cava,
"Malpelo" come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva
esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso
la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di
mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo
di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva
avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per
tutto l'oro del mondo.
"Malpelo", invece, non aveva
nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua
pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne
del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina
ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse
nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il
piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne
andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di
"Malpelo", e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di
lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi
capelli rossi e gli occhiacci grigi.
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