Un grandissimo poeta. Stiamo per incontrare Giacomo Leopardi, uno dei
maggiori poeti italiani di tutti i tempi. Su di lui il più importante critico
ottocentesco, Francesco De Sanctis (che è un po' il fondatore riconosciuto
della nostra storia della letteratura), ha scritto una frase che è diventata
famosa: Leopardi "non crede al progresso ma te lo fa desiderare; non
crede alla libertà e te la fa amare; chiama illusioni l'amore, la gloria e la
virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto". E questa è forse
la verità più autentica di Giacomo: certamente pessimista, pochi autori come
lui sono riusciti a comunicare il piacere di vivere. Ed è forse per questo che
Leopardi ha saputo parlare a persone di generazioni molto diverse, tutte
incantandole con la straordinaria qualità musicale del suo verso e del suo
sentire.
Sbaglieremmo,
dunque, a ridurre Leopardi al solo suo ben noto pessimismo. C'è in Giacomo la
volontà di non arrendersi di fronte ai dolori, c'è l'invito a puntare sulla
solidarietà fra gli uomini, c'è profondo il canto della dignità umana,
dell'essere persona impegnata a realizzare un progetto di vita, compiuto e
responsabile.
Dopo
Francesco Petrarca, Giacomo Leopardi, fu uno dei massimi poeti lirici italiani:
animo sensibile e inquieto, seppe indagare
l'uomo con profondo spirito d'osservazione e attenzione, creando testi senza
tempo. Quello che maggiormente stupisce in lui è la straordinaria capacità di
riflettere e ragionare in versi, tanto che gli è stato attribuito un
"pensiero poetante": ciò significa che egli seppe esercitare le capacità
razionali e critiche verso la realtà senza disgiungerle dal sogno e dalla
sensibilità del suo essere poeta. Nel periodo, primo Ottocento, in Italia si sviluppava una disputa tra gli
scrittori per stabilire quale rapporto mantenere con gli autori del passato. I
romantici ritengono che la cultura italiana debba uscire dalla tradizione per
accostarsi alle moderne letterature straniere, i classicisti sono convinti che
l’arte del passato abbia raggiunto una perfezione che non può essere superata e
che debba essere un costante punto di riferimento per gli scrittori. Leopardi
si schiera con i classicisti e sceglie Petrarca come modello di lingua e stile,
poi però sperimenta nuove forme metriche e affronta temi che lo rendono
l’autore romantico per eccellenza. La grandezza di Leopardi fa sì che risulti
difficile definirlo: egli fu un "classico", nel senso che predilesse
la tradizione della poesia antica e che divenne lui stesso punto di
riferimento per i poeti a venire, ma in realtà fu il nostro poeta più
"romantico", come dimostrano le sue accorate invocazioni alla notte
e alla luna; fu senza dubbio segnato da un pessimismo cupo, eppure amò così
profondamente la vita da cantarla in versi sublimi e indimenticabili.
Il natìo borgo selvaggio. Così Leopardi chiamava Recanati, la cittadina
dello Stato Pontificio (oggi nelle Marche) dove era nato nel 1798. Un luogo,
come si vede, che Leopardi non amava troppo: è probabile che lo sentisse in
gran ritardo e perfino arretrato rispetto ai modelli che gli provenivano dai
salotti più a nord, da Milano o da Bologna. E poi come si fa ad amare un paese
dove non hai mai avuto amici o comunque persone con cui condividere le
riflessioni, i pensieri e gli stessi testi che scrivi?
Una famiglia difficile. In realtà Leopardi era cresciuto in una famiglia
difficile e il paese e la casa paterna si combinano nel suo giudizio. I
genitori appartenevano alla nobiltà, ma le condizioni economiche non erano
floride; la madre Adelaide era impegnata nell'amministrazione dei pericolanti
beni di famiglia e non aveva molto tempo per i figli. Il piccolo Giacomo aveva
però un forte legame affettuoso con i fratelli Carlo, Paolina e Luigi. Al
contrario, furono invece molto difficili per tutta la vita i rapporti con il
padre Monaldo, un uomo religiosissimo e autoritario, di idee estremamente
conservatrici e tutto preso dagli studi storici e letterari. Leopardi riuscì
solo molto faticosamente a "liberarsi" dall'autorità paterna, come
vedremo.
Maestra biblioteca. Tuttavia, era naturale che fosse proprio il padre
ad avviarlo agli studi, assegnandogli un maestro che lo seguì fino a
quattordici anni. Quando questo non ebbe "più nulla da insegnargli"
(come diceva il padre stesso), il giovane Leopardi, che si era abituato allo
studio e alla solitudine, continuò da solo. Il suo cammino di intellettuale e
di poeta comincia nella ricchissima biblioteca del padre. Era però una
biblioteca non molto aggiornata, dove era difficile trovare i libri degli autori
più moderni. L'educazione di Leopardi fu dunque tutta affidata alla lettura e
allo studio dei classici. Conosceva benissimo il greco, il latino, l'ebraico e
spesso traduceva testi antichi. Scrivendo, seguiva i generi e
"copiava" gli esempi degli scrittori classici. Più avanti negli
anni, Leopardi stesso definì questo periodo come "anni di studio matto e
disperatissimo". E persino probabile che da questi studi dipenda una
salute spesso cagionevole che fu incerta e piena di problemi per tutta la vita.
Nuove letture e nuovi incontri. Fra il 1816 e il 1817 a Leopardi accaddero
cose più interessanti. Intanto cominciò ad essere più autonomo nelle scelte e
lesse per la prima volta autori moderni come Alfieri, Foscolo, Goethe e Byron.
Poi divenne amico (per lettera, inizialmente) di Pietro Giordani, un letterato
intelligente e già famoso, che capì subito di trovarsi di fronte a un genio letterario
e per questo lo incoraggiò e lo mise in contatto con un ambiente culturalmente
più aperto e vivace. Sempre nel 1817 Leopardi si innamorò per la prima volta e
scrisse le Memorie del primo amore. Cominciò a scrivere il suo diario, una
specie di quaderno ricco di riflessioni e appunti letterari che egli proseguì
fino al 1832. Questo quaderno è noto come Zibaldone di pensieri e più
semplicemente Zibaldone.
Fuggire di casa. Due anni dopo Leopardi provò a scappare di casa.
Aveva già 21 anni, ma nessuna indipendenza economica, e il padre non era
assolutamente disposto a lasciarlo andare via. Il suo piano però fu scoperto e
lui dovette lasciar trascorrere ancora tre anni prima di riuscire ad
allontanarsi da Recanati. Furono tre anni non felici (per di più Leopardi si
era appena rimesso da una grave malattia agli occhi). E tuttavia corrispondono
anche alla prima fase della grande poesia leopardiana. In questo periodo
scrisse infatti le canzoni filosofiche e i "piccoli idilli", il più
famoso dei quali è l’Infinito. Arriva così il 1822. In quell'anno fu
finalmente possibile per Leopardi lasciare Recanati per trascorrere qualche
mese a Roma (dove però restò deluso dalla gente con cui fece conoscenza). Al
ritorno nel paese natale, fra il 1823 e il 1824 compose la sua maggiore opera
in prosa, le Operette morali.
Nuovi viaggi e grandi idilli. La seconda stagione di viaggi fu più fortunata.
Gli anni che vanno dal 1825 al 1828 lo videro a Milano, Bologna, Firenze, e
Pisa, dove Leopardi conobbe gli intellettuali di spicco del suo tempo e
frequentò alcuni circoli letterari, pur restando sempre indipendente e un po'
isolato. Strinse anche delle amicizie, ma inutilmente cercò un impiego che gli
permettesse di lasciare per sempre la casa paterna. E lì dovette tornare nel
'28. Per due anni si dedicò di nuovo alla poesia e compose i "grandi
idilli".
Addio a Recanati (e al mondo). Nel 1830 il poeta lasciava Recanati per sempre e
si trasferiva prima a Firenze poi, nel 1833, a Napoli insieme all'amico Antonio
Ranieri. Negli anni fiorentini, oltre a scrivere nuovi Canti e a concludere lo
Zibaldone, Leopardi pubblicò l'edizione definitiva (con aggiunte importanti)
delle Operette morali. A Napoli invece scrisse i Pensieri e le sue ultime
poesie, soprattutto La ginestra, che costituisce una specie di suo testamento
spirituale. Morì giovanissimo, a soli 39 anni, il 14 giugno del 1837.
Il poeta filosofo. Come abbiamo detto, Leopardi è uno dei nostri
maggiori poeti, ma oltre ai testi poetici ha scritto anche numerosi testi in
prosa di diverso genere: dalle riflessioni di diario dello Zibaldone alle
invenzioni fantastiche delle Operette morali, ai Pensieri (scritti negli ultimi
anni, in parte rielaborando passi dello Zibaldone). Dall'insieme di tutti
questi testi si ricava il percorso del pensiero di Leopardi, un pensiero molto
ricco che testimonia non solo il poeta, ma in un certo senso il filosofo, se
per filosofo intendiamo quel pensatore che cerca risposte alle domande fondamentali
della vita.
Vediamo
rapidamente questi "principi filosofici". In principio Leopardi pensa
che alcuni uomini, più di altri, siano particolarmente infelici, e allora ne
ricerca le ragioni. Ma chi è più infelice? A questa domanda Giacomo risponde
che lo sono più gli uomini moderni degli antichi, e crede che questo accada
perché gli uomini moderni si sono allontanati troppo dalla Natura. In una
prima fase della sua analisi Leopardi afferma che la dolorosa condizione umana
è una conseguenza del distacco tra l'uomo e la natura, avvenuto con il processo
di civilizzazione: in un remoto passato invece gli uomini erano felici perché
vivevano in sintonia con la
Natura, madre che li ha generati. Allo stesso modo il singolo
individuo non sente la propria infelicità nella prima fase della sua vita,
quando è pieno di entusiasmo e di illusioni sulla sua vita futura, ma solo
nella fase della maturità, quando diviene consapevole di non poter appagare le
illusioni e i sogni dell'età giovanile.
Questa
teoria, che si esprime soprattutto nei Piccoli Idilli, viene definita pessimismo
storico in quanto l'autore colloca l'inizio dell'infelicità umana in un
preciso momento dell'evoluzione umana.
Nell'ultima
fase del suo pensiero, invece, si convince che tutti gli uomini, di ogni tempo,
sono destinati all'infelicità. Il problema è che l'uomo è
"limitato": è destinato a morire e può vedere, sentire, sperimentare
e conoscere solo una piccolissima parte delle cose che esistono. Nello stesso
tempo però, l'uomo è in grado di pensare e di immaginarsi l'infinito,
l'illimitato, l'eterno. E questo il tema, ad esempio, della poesia più famosa
di Leopardi, L'infinito: qui la sensazione della "immensità" può
provocare un rapido, intenso e profondo piacere.
Natura matrigna. In un altro canto famoso, La quiete dopo la tempesta,
Leopardi sostiene che l'unico vero piacere è il sollievo che si prova quando ci
si libera da una grande paura. E tuttavia questa sensazione è troppo rapida:
ben presto si ricade o in una noia profonda oppure in una nuova paura. Secondo
il nostro poeta c'è comunque una responsabile di tutto questo: è la Natura. Se è vero che
spesso gli uomini hanno voluto considerare in lei una madre - affettuosa e
lungimirante, essa è invece una matrigna terribile e ingrata: non si preoccupa
affatto del benessere degli uomini e della loro salvezza, come in verità non si
preoccupa in modo particolare di nessun'altra creatura. Alla Natura interessa
solo preservare nel suo complesso e inconsapevolmente la vita dell'universo.
Ora, perché si comporti così nessuno lo può spiegare. L'uomo è stato creato da una Natura matrigna, crudele
e indifferente ai suoi bisogni come a quelli delle altre creature viventi, e
che il dolore è una caratteristica costante che riguarda l'intera umanità in
ogni epoca e in ogni circostanza. Questa seconda concezione, che ritroviamo
soprattutto nei Grandi Idilli e nelle Operette morali, viene definita pessimismo
cosmico perché si estende a qualsiasi forma di vita dell'universo Sono idee
che ispirano Leopardi fin dalle sue prime opere: ad esempio, il destino della
sorte umana è già tracciato in una Operetta morale, forse la più celebre, e
cioè il Dialogo della Natura e di un Islandese (1824).
Le ragioni della vita. Ma, nelle stesse Operette e soprattutto nei Canti,
Leopardi va costantemente alla ricerca di qualcosa che possa rendere l'uomo
meno infelice, almeno per un po', e trasmettergli così il coraggio di vivere.
Ad esempio, si sofferma a lungo su quelle che anche lui (come Foscolo) chiama
"illusioni" o "ameni inganni": la bellezza, la
contemplazione della natura, l'idea dell'infinito, il ritornare con la memoria
al passato, all'infanzia e alla giovinezza, alle speranze giovanili, anche se
sono andate deluse. E discute anche degli onori umani come possono essere
l'ambizione della gloria e la fama. Ma l’"inganno estremo", quello
che resiste più di tutti gli altri, è l'amore. Anche a questo bisogna, infine,
rinunciare.
La dignità. Che cosa rimane, allora? Nella Ginestra Leopardi
invita i suoi simili a non piegarsi di fronte all'infelicità. Gli uomini non
devono coltivare nessuna illusione (soprattutto, non devono credere di essere
al centro dell'universo e non devono credere nel "progresso": ogni
conquista dell'uomo è solo apparente oppure viene ben presto distrutta da
nuovi imprevedibili eventi). Però devono essere solidali fra di loro e lavorare
duramente e instancabilmente per contrastare l'ostilità della Natura (che è
proprio una ostilità materiale: la
Ginestra infatti prende spunto dall'osservazione delle città
distrutte dalla famosa eruzione del Vesuvio nel 79 d.C). In questo impegno e
in questo sforzo contro un nemico comune che è invincibile gli uomini troveranno
quella dignità che darà senso alla loro vita.
I Canti. Nei Canti il pensiero di Leopardi si traduce in
altissima poesia. La raccolta che porta questo titolo uscì per la prima volta
nel 1831 e nel 1835 in
una seconda edizione. L'edizione definitiva è del 1845 e comprende quarantuno
componimenti. Le poesie sono disposte in ordine prevalentemente cronologico e
questo permette di distinguere, senza voler essere troppo rigidi, le fasi
della poesia leopardiana. I testi sono tutti posteriori al 1817: in principio
si trovano le "canzoni civili" (All'Italia, Sopra il monumento di
Dante, per esempio), le canzoni "del suicidio" (in particolare
l'Ultimo canto di Saffo) e le canzoni filosofiche. Vengono poi i "piccoli
idilli" o "primi idilli", dove troviamo titoli famosissimi come
L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna; a questi si aggiunge Il passero
solitario, però, mentre i "piccoli idilli" furono scritti fra il 1819
e il 1821, II passero solitario è probabilmente molto più tardo. Seguono i
"grandi idilli" del 1828-29: A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno
di un pastore errante dell'Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del
villaggio e poi le poesie del "ciclo di Aspasia", scritte fra il 1830
e il 1835 e ispirate dall'amore per la dama fiorentina Fanny Targioni
Tozzetti. Il libro si chiude con le poesie dell'ultimo periodo, quello
napoletano, dove spiccano La ginestra e Il tramonto della luna.
Idillio. La parola idillio viene dal greco e significa
“piccola immagine, quadretto”. Nella poesia greca antica il termine indicava
piccoli componimenti in versi di ambientazione pastorale, eseguiti con
l’accompagnamento del flauto. Ripreso dai poeti latini, ad esempio Virgilio, il
genere fu usato successivamente nella poesia italiana e rifiorì in particolare
nel Settecento. Col termine idilli Leopardi
indica sei poesie in endecasillabi sciolti, tra cui l’infinito tutte composte
tra il 1819 e il 1821. Del modello classico il poeta riprende la brevità e la
rappresentazione della vita agreste, ma lo interpreta in modo assai personale.
La contemplazione della natura e dei suoi abitanti, animali e umani, è infatti
solo un pretesto per esprimere “situazioni, affezioni, avventure…dell’animo”,
cioè emozioni e stati d’animo.
L’endecasillabo sciolto. È il verso di undici sillabe, con accento tonico
sulla penultima. L’endecasillabo sciolto è il genere che prevede una
successione di endecasillabi senza rima. È una forma che inizia a diffondersi
nel Cinquecento, soprattutto nel teatro, ma trova la consacrazione tra le fine
del Settecento, con Parini, e il primo Ottocento con Foscolo (I Sepolcri)
Gli strani personaggi delle Operette
morali. Le Operette sono
ventiquattro: diciannove furono scritte nel 1824, le altre fra 1825 e 1832. Di
queste ben sedici sono dialoghi secondo un modello letterario che Leopardi
aveva ricavato da uno scrittore greco del II secolo d.C. Luciano. Le altre
hanno forma varia e rivelano la conoscenza che Leopardi aveva di opere anche
molto rare dell'antichità. I temi trattati hanno uno spessore filosofico
notevole, però Leopardi li tratta con grande ricchezza inventiva e con costante
ironia, cosicché la loro lettura risulta in molti casi piuttosto divertente. I
personaggi dei dialoghi sono quanto mai curiosi: per esempio troviamo un
Folletto e uno Gnomo, Torquato Tasso e Cristoforo Colombo o un povero Islandese
sconosciuto, delle mummie e la
Natura stessa, e poi la Terra, la
Luna, la Morte
e persino la Moda. Sono
mescolati quindi personaggi storici e del mito, uomini comuni e animali, esseri
soprannaturali e concetti personificati. I loro dialoghi consentono al poeta di
proporre in forma interessante e "letteraria" le sue riflessioni più
serie, su argomenti di grande importanza per la vita dell'uomo.
Quante Lettere. Leopardi ha scritto moltissime lettere: ai
famigliari, agli amici, a uomini del suo tempo con cui discuteva soprattutto di
questioni letterarie e filosofiche (e che talvolta conosceva solo per corrispondenza).
Il suo epistolario è bello per la semplicità l'immediatezza e la commozione con
cui trasmette i suoi sentimenti, soprattutto nelle lettere più famigliari. Ma
le sue lettere sono anche molto interessanti perché, affiancandosi allo
Zibaldone, ci permettono di seguire l'evoluzione del pensiero del poeta e il
complesso cammino della sua vita interiore, e di conseguenza di capire meglio
la sua opera, un'opera che illumina la letteratura italiana.