martedì 26 febbraio 2013

mancano alcune cose sullo schema di sotto sulla rivoluzione americana

venerdì 15 febbraio 2013

AVVISI

LUNEDI' CARTELLONI SULLA SCHIAVITU'
PORTATE IL MATERIALE.

MARTEDI' LETTURA DELLA NOVELLA "FEDERIGO DEGLI ALBERIGHI"

Federigo degli Alberighi Giovanni Boccaccio



Federigo degli Alberighi       Giovanni Boccaccio

Federigo degli Alberighi, il giovane e nobile cavaliere protagonista di questa novella d’amore a lieto fine, raffigura quegli ideali di vita cortese e cavalleresca che all’epoca di Boccaccio apparivano ormai superati. Nella società, infatti, dei mercanti borghesi del Trecento trionfava la logica del denaro e della ricchezza. Tuttavia Boccaccio, pur considerando la gentilezza, la nobiltà d’animo, l’amore puro e delicato, dei valori superati, tipici della mentalità del passato, non esita a celebrarli in questa sua novella in quanto costituiscono pur sempre un significativo modello di vita.
Dal momento che la versione originale presenta parecchie difficoltà di comprensione, ti presentiamo questa novella nella versione in lingua moderna di Piero Chiara.

Il giovane Federigo degli Alberighi1, di nobilissima famiglia fiorentina, bravo nelle armi e ammirato da tutti per la sua cortesia, si era invaghito di una gentile dama ritenuta una delle più belle e leggiadre della città. Per farsi apprezzare da lei, partecipava a tornei e ad altri esercizi cavallereschi, organizzava feste e si vestiva riccamente, spendendo senza ritegno. La signora, di nome Giovanna, onesta quanto era bella, pareva non accorgersi di quel che faceva il giovane per mettersi in vista e acquistar merito ai suoi occhi.
Federigo, non avendo altra maniera per trovar rimedio alla sua passione, finì col dilapidare il suo patrimonio, pur senza trovarsi ad aver fatto alcun progresso nella considerazione della dama.
Non gli era rimasto, nella rovina in cui era caduto, che un suo poderetto del quale si ridusse a vivere poveramente, portandosi dietro soltanto un falcone2, che aveva carissimo e che tutti gl’invidiavano, perché era il migliore del mondo.
In quel luogo solitario, passava tristemente le sue giornate, avendo per unico svago e anche per unica risorsa il bel falcone col quale passava le giornate cacciando.
Ora avvenne che mentre Federigo campava così stantemente la sua vita3, il marito della signora si ammalò e in breve morì. Rimasta vedova, la donna si dedicò interamente al suo unico figliolo, che era  già grandicello, ma assai gracile e di cattiva salute. Venuta l’estate, per rimetterlo in forze, lo portò in campagna, all’aria buona, in un podere di sua proprietà che era vicino a quello di Federigo.
 Il giovanetto, girando per i dintorni, conobbe Federigo e, incuriosito dalla caccia, cominciò ad andargli appresso e a frequentare la sua casa, fin che gli divenne amico. Più d’ogni altra cosa, lo attraeva la caccia col falcone, che seguiva spasimando per il bel rapace, quando, scattato dal pugno di Federigo, ghermiva le prede a volo e le riportava, deponendole ai piedi del padrone.
Avrebbe voluto che quel magnifico falcone divenisse suo, ma non osava domandarlo a Federigo, perché sapeva quanto costui lo avesse  caro. Invece di aver giovamento della vita all’aria aperta, il ragazzo ne ebbe danno, perché quel poco di strapazzo della caccia lo indebolì e
lo fece ricadere ammalato. Sua madre, la quale non aveva altro bene che lui, gli stava intorno tutto il giorno a curarlo e continuamente gli domandava se c’era qualcosa che potesse fargli piacere.
Il ragazzo un giorno disse: «Madre mia, se mi faceste avere il falcone di Federigo, sento che guarirei».
La donna rimase perplessa. Sapeva quanto Federigo l’avesse amata senza ottenere da lei un solo sguardo, e si diceva: “Come posso domandargli quel falcone, che a quanto si dice è il migliore che mai volasse, e oltre a ciò è quello che lo mantiene in vita4?”.
Era certa che se glielo avesse chiesto l’avrebbe avuto, tanto era nota la gentilezza di Federigo e tanto poteva contare sulla sua devozione, ma non si decideva a togliergli quell’unica ricchezza. L’amor del figlio finì tuttavia col deciderla.
«Cercherò di accontentarti» disse al figlio.
Il malato fu così contento di quella promessa, che parve subito migliorato.
La mattina seguente, presa con sé un’altra donna, con l’aria di chi voglia fare una passeggiata, Giovanna passò dalla casetta di Federigo e lo fece chiamare. Mentre, stupito, il giovane accorreva dall’orto dove stava intento a piccoli lavori, Giovanna gli si fece incontro lietamente e gli disse: «Salute Federigo. Vengo a farvi questa visita per ricambiarvi, un po’ tardi, la gentilezza che mi avete dimostrato amandomi per tanto tempo senza speranza. Starò, se lo consentite, a pranzo con voi, alla buona, insieme a questa mia compagna».
«Signora», rispose Federigo «da voi ho avuto soltanto del bene, perché l’amore che vi ho portato mi ha fatto grande onore. Vedervi ora qui così amabilmente, mi è più caro di quanto non mi sarebbe il riavere quanto ho speso amandovi, ma purtroppo questa povera casa non è degna di voi. Permettete almeno che vada a far mettere un po’ d’ordine e a comandare che si disponga la tavola. Sedetevi intanto con la vostra amica in giardino, dove la moglie del mio contadino vi
terrà compagnia».
Così detto entrò in casa, andò nella cucina e si rese conto che non vi era nulla da portare in tavola, altro che rape e qualche insalata. Avrebbe potuto mandare a comprare qualcosa al paese vicino, ma si accorse di non avere neppure un soldo in tasca. Guardandosi intorno in cerca di qualche ispirazione, gli caddero gli occhi sul suo falcone, che se ne stava appollaiato sopra una stanga. Senza un istante d’esitazione lo prese e, trovandolo grasso e di buon peso, pensò di poterlo cucinare. Gli tirò il collo, lo fece spennare e ordinò alla donna di cuocerlo allo spiedo. Apparecchiò intanto la tavola con una bella tovaglia che aveva salvato dai creditori e, passata una mezz’ora, andò in giardino e con un gesto da gran signore invitò e due donne alla mensa.
Fu subito portato in tavola il falcone che, ben cotto com’era e privato della testa e delle zampe, pareva un fagiano. Federigo scalcò5 l’animale e servì le donne delle parti migliori, poi se stesso.
Mangiato che ebbero, Giovanna diede inizio a una piacevole conversazione, nel corso della  quale, quando le parve venuto il momento giusto, disse a Federigo: «Ora vi debbo dire la vera ragione per la quale vi ho fatto questa visita. Forse, ricordando la mia riservatezza, che voi avrete giudicato durezza d’animo e crudeltà, troverete strano il passo che ora sto per compiere. Chi non ha figlioli non può capire cosa si arriva a fare per le proprie creature. Ma forse voi, che
siete uomo di grandi sentimenti, potrete comprendere il mio stato d’animo. È per lui, per mio figlio, che sono qui a chiedervi un dono che vi sarà difficile fare, perché si tratta dell’unica consolazione che voi abbiate nella solitudine in cui vivete. Si tratta del vostro falcone. Mio figlio, che è ammalato, si è tanto invaghito del vostro falcone, che se non glielo porto si aggraverà e potrà anche morire. Perciò vi prego, per l’amore che mi portate, che mi facciate questo dono con la generosità che avete sempre mostrato. Mio figlio riavrà la sua salute ed io vi sarò per sempre obbligata».
Federigo, che aveva i sudori freddi pensando al falcone che avevano appena mangiato, incominciò a piangere in silenzio. Giovanna, convinta che quel pianto fosse dovuto al dispiacere che il giovane provava nel separarsi dal suo falcone, era quasi pentita del suo ardire e
stava per rinunciare al dono.
Federigo allora, trattenendo a fatica le lacrime, disse: «Signora, da quando Dio volle che io vi amassi, in molte cose ho avuto contraria la fortuna. Ma erano cose da nulla rispetto a ciò che oggi mi accade.
Quand’ero ricco non vi degnaste mai di entrare nella mia casa, ma ecco che ora siete venuta in questo mio povero luogo a chiedermi un piccolo dono che non vi posso fare. Io, che per voi ho dato tutto quanto avevo! Sappiate che appena siete arrivata qui e mi avete chiesto di desinare, per riguardo al vostro valore6 ho deciso di mettervi cotto sul tagliere la cosa che più mi era cara e preziosa: il falcone. Vedendo ora che lo volevate vivo, il dispiacere di non potervi accontentare è così forte che non mi darà più pace».
Poi andò in cucina, prese le penne, le zampe e il bello del falcone e li mise davanti a Giovanna; questa lo rimproverò d’aver sacrificato un simile animale per darle da mangiare, ma non poté tuttavia far a meno di ammirare la sua grandezza d’animo.
Triste e sconsolata, se ne partì e tornò dal suo figliolo, il quale per il suo disappunto di non aver avuto il falcone e per la gravità del male che lo aveva colpito, si aggravò e dopo alcuni giorni morì.
Giovanna, dopo lunga sofferenza, trovandosi sola, ricchissima e ancor giovane, venne consigliata dai suoi fratelli a rimaritarsi. Per alcun7 tempo non volle sentirne parlare, parendole finita la vita sua. Ma davanti alle insistenze di tutto il parentado e dovendosi in qualche modo risolvere, avendo sempre presente la grandezza d’animo dimostratale da Federigo, disse che solo lui avrebbe sposato. I fratelli, sapendolo povero, non furono d’accordo e le suggerirono parecchie altre persone facoltose8. Ma Giovanna fu irremovibile.
«Fratelli miei», disse «so benissimo in quali condizioni è ridotto Federigo degli Alberighi, ma preferisco un uomo che abbia bisogno di una ricchezza a una ricchezza che abbia bisogno di un uomo».
I fratelli, vinti da un tale atteggiamento, finirono per cedere e diedero in sposa a Federigo la loro sorella, con tutto il suo patrimonio. Divenuto saggio amministratore della sua nuova ricchezza9, Federigo visse in letizia con  Giovanna fino alla fine dei suoi anni, benedicendo il giorno in cui aveva tirato il collo al suo bel falcone.
(da G. Boccaccio, Decamerone, dieci novelle raccontate da Piero Chiara, Mondadori, Milano)
1. Alberighi: antica e nobile famiglia fiorentina.               2. falcone: falco addestrato per la caccia agli uccelli.
3. campava... vita: trascorreva la vita così poveramente, in grandi ristrettezze.
4. lo mantiene in vita:gli procura di che vivere               5. scalcò: spezzettò, fece a pezzi.
6. valore: qualità umana e morale.                                 7. alcun: qualche.
8. facoltose: ricche.

mercoledì 13 febbraio 2013

letteratura venerdì

Venerdì leggeremo Chichibio,  novella del Decameron.
Da stampare.
Si trova  anche nel libro "Il quadrato magico"

Chichibio cuoco



Chichibio cuoco
E’ questa una delle novelle più note del Decameron. Il protagonista è Chichibio, un cuoco chiacchierone e piuttosto leggero che, per amore di Brunetta, “una femminetta dalla contrada”, si mette nei guai. Grazie però alla sua prontezza di spirito che gli fa pronunciare una risposta arguta e inaspettata, riesce a calmare l’ira del padrone e a evitare così la meritata punizione.
      Currado Gianfigliazzi1, sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote2 avere, sempre della nostra città3 è stato nobile cittadino, liberale e magnifico4, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli s'è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare5. Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola6 una gru ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio7, ed era viniziano8, e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e governassela9 bene. Chichibio, il quale come nuovo bergolo era così pareva10, acconcia11 la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso che cotta e grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l'odor della gru e veggendola12, pregò caramente13 Chichibio che ne le14 desse una coscia.
      Chichibio le rispose cantando e disse: "Voi non l'avrì da mi15, donna Brunetta, voi non l'avrì da mi".
      Di che donna Brunetta essendo un poco turbata16, gli disse: “In fè di Dio, se tu non la me dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia”; e in brieve le parole furon molte17; alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata18 l'una delle cosce alla gru, gliele diede.
      Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere19 messa la gru senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l'altra coscia della gru20; al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose: “Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba”.
      Currado allora turbato disse: “Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa?21”.
      Chichibio seguitò: “Egli è, messer, com'io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi22”.
      Currado, per amor dei forestieri che seco aveva, non volle dietro alle parole andare23, ma disse: “Poi che tu di’24 farmelo vedere ne’ vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che fosse, e io il voglio veder domattina se sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo, che, se altrimenti sarà,  io ti farò conciar in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai25, del nome mio”.
      Finite adunque per quella sera le parole26, la mattina seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato27 si levò e comandò che i cavalli gli fosser menati28; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino29, verso una fiumana30, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò31 dicendo: “Tosto32 vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io”.
      Chichibio, veggendo che ancora durava l'ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia33, non sappiendo come poterlasi fare34, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piedi.
      Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute35 sopra la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano36, si come quando dormono soglion fare; per che egli prestamente mostratele a Currado, disse: “Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno.”
      Currado vedendole disse: “Aspettati37, che io ti mosterò che elle n'hanno due”; e fattosi alquanto più a quelle vicino gridò:”ho ho”; per lo qual grido le gru, mandato l'altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire, laonde38 Currado rivolto a Chichibio disse: “Che ti par, ghiottone? Parti39 ch'elle n'abbian due?”
      Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse40, rispose: “Messer sì, ma voi non gridaste ho ho  a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste”.
       A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì41 in festa e riso, e disse: “Chichibio, tu hai ragione, ben lo dovea fare”.  
 Così adunque con la sua pronta e sollazzevol42 risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore43.

  1. Currado Gianfigliazzi: personaggio realmente vissuto appartenente a una ricca e famosa famiglia di banchieri fiorentini; fu contemporaneo di Boccaccio.
  2. puote: può.
  3. nostra città: si tratta di Firenze.
  4. liberale e magnifico: generoso e dedito a una vita splendida.
  5. continuamente… stare: continuamente si è divertito ad andare a caccia con i suoi cani e i suoi uccelli (falconi) per non parlare ora delle opere più importanti da lui compiute.
  6. Peretola: borgata non molto lontana da Firenze.
  7. Chichibio: probabilmente si tratta di un soprannome e va pronunciato Chichibìo, con l’accento sull’ultima i.
  8. viniziano: veneziano.
  9. governassela: la cucinasse.
  10. il quale…pareva: il quale era veramente un chiacchierone un po’ sciocco, come sembrava.
  11. acconcia: preparata.
  12. veggendola: vedendola.
  13. caramente: caldamente.
  14. ne le: gliene.
  15. Voi non l’avrì da mi: voi non l’avrete da me.
  16. turbata: indispettita, offesa.
  17. le parole furon molte: il battibecco durò a lungo.
  18. spiccata: staccata.
  19. forestiere: ospite.
  20. domandollo…gru: gli domandò che cosa fosse accaduto all’altra coscia della gru.
  21. Non vid’io… questa?: pensi forse che io non abbia mai visto altre gru che questa?
  22. io il vi … vivi: io ve la farò vedere nelle gru vive.
  23. non volle…andare: non volle continuare la discussione.
  24. di’: dici.
  25. sempre che tu ci viverai: finchè vivrai.
  26. le parole: le discussioni.
  27. gonfiato: pieno di rabbia.
  28. menati: portati, condotti.
  29. ronzino: cavalo di poco pregio.
  30. fiumana: fiume.
  31. nel menò: lo condusse.
  32. Tosto: subito.
  33. e che far…bugia: e che gli conveniva dare dimostrazione che quello che aveva detto era vero.
  34. non sappiendo…fare: non sapendo come cavarsela.
  35. gli venner…vedute: gli capitò di vedere prima di qualsiasi altro.
  36. dimoravano:stavano.
  37. Aspettati: aspetta un momento.
  38. laonde: per la qual cosa.
  39. Parti: ti pare.
  40. donde si venisse: da dove gli venisse quella risposta.
  41. si convertì: si trasformò.
  42. sollazzevol: divertente.
  43. cessò…signore: scampò alla cattiva sorte e si rappacificò con il suo signore.

lunedì 11 febbraio 2013

ma ke bel carnevale siamo stati tutta la settimana chiusi dentro x colpa di questo stupido tempo ke no ne vuole sapere di diventare buono,

sabato 9 febbraio 2013

ki l'ha fatto il disegno d'arte ?????????
comunque non si capiva nnt da come l'ha disegnato lui ,poi se ci mettiamo ke prima di fare una linea ci metteva 7 giorni + il fatto ke si è preso solo mezz'ora di ramanzina e per la spiegazione se ne preso un altra  mezz'ora ,io questo professore non lo sopporto