domenica 22 settembre 2013

L'infinito





L'infinito, composto a Recanati nel 1819, è il primo dei canti (La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria) cui il poeta diede il nome di idilli.
Nell'immaginare l'infinito, il pensiero del poeta si smarrisce, si perde, ma questo naufragare nell'immensità provoca una sensazione indefinibile di piacere e di dolcezza;        percepire l'infinito significa infatti per Leopardi evadere da una realtà circoscritta e limitata, per perdersi nel nulla e dimenticare per qualche istante il dolore della vita
.



Sempre caro mi fu quest'ermo colle1,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude2.
Ma3  sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura4. E come5 il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando:6 e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei.7 Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.8

Schema metrico: endecasillabi sciolti.


1. Sempre... colle: il colle è il monte Tabor, vicino a Re­canati; il colle solitario (ermo) è caro al poeta perché gli consente di isolarsi, di raccogliersi nei propri pensieri e nella propria immaginazione. L'avverbio sempre indica una lunga consuetudine.
2. e questa... esclude: che impedisce allo sguardo di spaziare; anche la siepe, che ostacola la sua vista e gli impedisce di vedere (il guardo esclude) tanta parte dell'estremo (ultimo) orizzonte, è cara al poe­ta, perché gli permette di oltrepassarla con l'immagina­zione. La siepe rappresenta il limite del reale, che susci­ta il bisogno di evasione e il desiderio di infinito, che è in­sopprimibile in ogni essere.
3. ma: il ma avversativo segna il distacco tra lo spazio reale limitato (il colle e la siepe) e quello infinito cui il poe­ta accede con l'immaginazione.
Sedendo e mirando:soffermandomi e contemplando.
Nel pensier mi fingo: con la mente immagin.
4. ove... non si spaura: la visione dell'infinito porta ad un senso di smarrimento; ove significa "in cui" (riferito a spazi, silenzi, quiete), ma ha anche un valore consecutivo (al punto che).
5. e come: quando, non appena; la congiunzione segna il passaggio dalla percezione dell'infinito di spazio a quel­la dell'infinito di tempo, e sottolinea quindi il momentaneo recupero, da parte del poeta, del rapporto con la realtà.
6. il vento... vo comparando: non appena il poeta ode stormire il vento tra le fronde, si sente riportare alla realtà, e mette subito in relazione la voce del vento con l'infinito silenzio immaginato negli spazi sovrumani.
7. e mi sovvien... e il suon di lei: la rapida progressione delle sensazioni viene sottolineata dalle congiunzioni (E come; e mi sovvien; e la presente/e viva, e il suon di lei).
8. e il naufragar… mare: l'abbandonarsi, il perdersi nel mare dell'infinito, in pensieri e immaginazioni così vaste, provoca nell'animo una sensazione di piacere, di dolcez­za. La metafora del naufragio (rafforzata dall'ossimoro nau­fragar. .. dolce) rende l'idea dell'annullamento dell'animo del poeta, ma anche della dolcezza del suo sentirsi rias­sorbire nel tutto.

Giacomo Leopardi



Un grandissimo poeta. Stiamo per incontrare Giacomo Leopardi, uno dei maggiori poeti italiani di tutti i tempi. Su di lui il più importante critico ottocentesco, Francesco De Sanctis (che è un po' il fon­datore riconosciuto della nostra storia della letteratura), ha scritto una frase che è diven­tata famosa: Leopardi "non crede al pro­gresso ma te lo fa desiderare; non crede alla libertà e te la fa amare; chiama illusioni l'a­more, la gloria e la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto". E questa è forse la verità più autentica di Giacomo: certamente pessimista, pochi autori come lui sono riusciti a comunicare il piacere di vivere. Ed è forse per questo che Leopardi ha saputo parlare a persone di generazioni molto diverse, tutte incantandole con la straordinaria qualità musicale del suo verso e del suo sentire.
Sbaglieremmo, dunque, a ridurre Leopardi al solo suo ben noto pessimismo. C'è in Giacomo la volontà di non arrendersi di fronte ai dolori, c'è l'invito a puntare sulla solidarietà fra gli uomini, c'è profondo il canto della dignità umana, dell'essere per­sona impegnata a realizzare un progetto di vita, compiuto e responsabile.
Dopo Francesco Petrarca, Giacomo Leopardi, fu uno dei massimi poeti lirici italiani: animo sensibile e inquieto,  seppe inda­gare l'uomo con profondo spirito d'osservazione e attenzione, creando testi senza tempo. Quello che maggiormente stupisce in lui è la straordi­naria capacità di riflettere e ragionare in versi, tanto che gli è stato attribui­to un "pensiero poetante": ciò significa che egli seppe esercitare le capa­cità razionali e critiche verso la realtà senza disgiungerle dal sogno e dalla sensibilità del suo essere poeta. Nel periodo, primo Ottocento,  in Italia si sviluppava una disputa tra gli scrittori per stabilire quale rapporto mantenere con gli autori del passato. I romantici ritengono che la cultura italiana debba uscire dalla tradizione per accostarsi alle moderne letterature straniere, i classicisti sono convinti che l’arte del passato abbia raggiunto una perfezione che non può essere superata e che debba essere un costante punto di riferimento per gli scrittori. Leopardi si schiera con i classicisti e sceglie Petrarca come modello di lingua e stile, poi però sperimenta nuove forme metriche e affronta temi che lo rendono l’autore romantico per eccellenza. La grandezza di Leopardi fa sì che risulti difficile definirlo: egli fu un "classico", nel senso che predilesse la tradizio­ne della poesia antica e che divenne lui stesso punto di riferimento per i poeti a venire, ma in realtà fu il nostro poeta più "romantico", come di­mostrano le sue accorate invocazioni alla notte e alla luna; fu senza dub­bio segnato da un pessimismo cupo, eppure amò così profondamente la vita da cantarla in versi sublimi e indimenticabili.
Il natìo borgo selvaggio. Così Leo­pardi chiamava Recanati, la cittadina dello Stato Pontificio (oggi nelle Marche) dove era nato nel 1798. Un luogo, come si vede, che Leopardi non amava troppo: è probabile che lo sentisse in gran ritardo e perfino arretrato rispetto ai modelli che gli provenivano dai salotti più a nord, da Milano o da Bologna. E poi come si fa ad amare un paese dove non hai mai avuto amici o comunque persone con cui condividere le riflessioni, i pensieri e gli stessi testi che scrivi?
Una famiglia difficile. In realtà Leo­pardi era cresciuto in una famiglia difficile e il paese e la casa paterna si combinano nel suo giudizio. I genitori appartenevano alla nobiltà, ma le condizioni economiche non erano floride; la madre Adelaide era impe­gnata nell'amministrazione dei pericolanti beni di famiglia e non aveva molto tempo per i figli. Il piccolo Giacomo aveva però un forte legame affettuoso con i fratelli Carlo, Paolina e Luigi. Al contrario, furono invece molto difficili per tutta la vita i rapporti con il padre Monaldo, un uomo religiosissimo e autoritario, di idee estremamente conserva­trici e tutto preso dagli studi storici e lette­rari. Leopardi riuscì solo molto faticosa­mente a "liberarsi" dall'autorità paterna, come vedremo.
Maestra biblioteca. Tuttavia, era naturale che fosse proprio il padre ad avviar­lo agli studi, assegnandogli un maestro che lo seguì fino a quattordici anni. Quando questo non ebbe "più nulla da insegnargli" (come diceva il padre stesso), il giovane Leopardi, che si era abituato allo studio e alla solitudine, continuò da solo. Il suo cammino di intellettuale e di poeta comin­cia nella ricchissima biblioteca del padre. Era però una biblioteca non molto aggior­nata, dove era difficile trovare i libri degli autori più moderni. L'educazione di Leopardi fu dunque tutta affidata alla lettu­ra e allo studio dei classici. Conosceva benissimo il greco, il latino, l'ebraico e spes­so traduceva testi antichi. Scrivendo, segui­va i generi e "copiava" gli esempi degli scrit­tori classici. Più avanti negli anni, Leopardi stesso definì questo periodo come "anni di studio matto e disperatissimo". E persino probabile che da questi studi dipenda una salute spesso cagionevole che fu incerta e piena di problemi per tutta la vita.
Nuove letture e nuovi incontri. Fra il 1816 e il 1817 a Leopardi accaddero cose più interessanti. Intanto cominciò ad essere più autonomo nelle scelte e lesse per la prima volta autori moderni come Alfieri, Foscolo, Goethe e Byron. Poi divenne amico (per lettera, inizialmente) di Pietro Giordani, un letterato intelligente e già famoso, che capì subito di trovarsi di fronte a un genio let­terario e per questo lo incoraggiò e lo mise in contatto con un ambiente culturalmente più aperto e vivace. Sempre nel 1817 Leopardi si innamorò per la prima volta e scrisse le Memorie del primo amore. Cominciò a scrivere il suo diario, una specie di quaderno ricco di riflessioni e appunti lette­rari che egli proseguì fino al 1832. Questo quaderno è noto come Zibaldone di pensieri e più semplicemente Zibaldone.
Fuggire di casa. Due anni dopo Leopardi provò a scappare di casa. Aveva già 21 anni, ma nessuna indipen­denza economica, e il padre non era assolutamente disposto a lasciarlo andare via. Il suo piano però fu scoperto e lui dovette lasciar trascorrere ancora tre anni prima di riuscire ad allontanarsi da Recanati. Furono tre anni non felici (per di più Leopardi si era appena rimesso da una grave malattia agli occhi). E tuttavia corrispondono anche alla prima fase della grande poesia leopardiana. In questo periodo scrisse infatti le canzoni filosofiche e i "piccoli idilli", il più famo­so dei quali è l’Infinito. Arriva così il 1822. In quell'anno fu finalmente pos­sibile per Leopardi lasciare Recanati per trascorrere qualche mese a Roma (dove però restò deluso dalla gente con cui fece conoscenza). Al ritorno nel paese natale, fra il 1823 e il 1824 compose la sua maggiore opera in prosa, le Operette morali.
Nuovi viaggi e grandi idilli. La seconda stagione di viaggi fu più fortunata. Gli anni che vanno dal 1825 al 1828 lo videro a Milano, Bologna, Firenze, e Pisa, dove Leopardi conobbe gli intellettuali di spicco del suo tempo e frequentò alcuni circoli letterari, pur restando sempre indi­pendente e un po' isolato. Strinse anche delle amicizie, ma inutilmente cercò un impiego che gli permettesse di lascia­re per sempre la casa paterna. E lì dovette tornare nel '28. Per due anni si dedicò di nuovo alla poesia e compose i "grandi idilli".
Addio a Recanati (e al mondo). Nel 1830 il poeta lasciava Recanati per sempre e si trasferiva prima a Firenze poi, nel 1833, a Napoli insieme all'amico Antonio Ranieri. Negli anni fiorentini, oltre a scrivere nuovi Canti e a con­cludere lo Zibaldone, Leopardi pubblicò l'edizione definiti­va (con aggiunte importanti) delle Operette morali. A Napoli invece scrisse i Pensieri e le sue ultime poesie, soprat­tutto La ginestra, che costituisce una specie di suo testa­mento spirituale. Morì giovanissimo, a soli 39 anni, il 14 giugno del 1837.
Il poeta filosofo. Come abbia­mo detto, Leopardi è uno dei nostri maggiori poeti, ma oltre ai testi poe­tici ha scritto anche numerosi testi in prosa di diverso genere: dalle riflessioni di diario dello Zibaldone alle invenzioni fantastiche delle Operette morali, ai Pensieri (scritti negli ultimi anni, in parte rielabo­rando passi dello Zibaldone). Dall'insieme di tutti questi testi si ricava il percorso del pensiero di Leopardi, un pensiero molto ricco che testimonia non solo il poeta, ma in un certo senso il filosofo, se per filosofo intendiamo quel pensatore che cerca risposte alle domande fon­damentali della vita.
Vediamo rapidamente questi "principi filosofici". In principio Leopardi pensa che alcuni uomini, più di altri, siano particolarmente infelici, e allora ne ricerca le ragioni. Ma chi è più infelice? A questa domanda Giacomo risponde che lo sono più gli uomini moderni degli antichi, e crede che questo accada perché gli uomini moderni si sono allontanati troppo dalla Natura. In una prima fase della sua analisi Leopardi afferma che la dolorosa con­dizione umana è una conseguenza del distacco tra l'uomo e la natura, avvenuto con il processo di civilizzazione: in un remoto passato invece gli uomini erano felici perché vivevano in sintonia con la Natura, madre che li ha generati. Allo stesso modo il singolo individuo non sente la pro­pria infelicità nella prima fase della sua vita, quando è pieno di entusia­smo e di illusioni sulla sua vita futura, ma solo nella fase della maturi­tà, quando diviene consapevole di non poter appagare le illusioni e i so­gni dell'età giovanile.
Questa teoria, che si esprime soprattutto nei Piccoli Idilli, viene definita pessimismo storico in quanto l'autore colloca l'inizio dell'infelicità uma­na in un preciso momento dell'evoluzione umana.
Nell'ultima fase del suo pensiero, invece, si convince che tutti gli uomini, di ogni tempo, sono desti­nati all'infelicità. Il problema è che l'uomo è "limitato": è destinato a morire e può vedere, sentire, speri­mentare e conoscere solo una picco­lissima parte delle cose che esistono. Nello stesso tempo però, l'uomo è in grado di pensare e di immaginar­si l'infinito, l'illimitato, l'eterno. E questo il tema, ad esempio, della poesia più famosa di Leopardi, L'infinito: qui la sensazione della "immensità" può provocare un rapi­do, intenso e profondo piacere.
Natura matrigna. In un altro canto famoso, La quiete dopo la tem­pesta, Leopardi sostiene che l'unico vero piacere è il sollievo che si prova quando ci si libera da una grande paura. E tuttavia questa sensazione è troppo rapida: ben presto si ricade o in una noia profonda oppure in una nuova paura. Secondo il nostro poeta c'è comunque una responsa­bile di tutto questo: è la Natura. Se è vero che spesso gli uomini hanno voluto considerare in lei una madre - affettuosa e lungimirante, essa è invece una matrigna terribile e ingrata: non si preoccupa affatto del benessere degli uomini e della loro salvezza, come in verità non si preoccupa in modo particolare di nessun'altra creatura. Alla Natura interessa solo preservare nel suo complesso e inconsapevolmente la vita dell'universo. Ora, perché si comporti così nessuno lo può spie­gare. L'uomo è stato creato da una Natura matrigna, cru­dele e indifferente ai suoi bisogni come a quelli delle altre creature vi­venti, e che il dolore è una caratteristica costante che riguarda l'intera umanità in ogni epoca e in ogni circostanza. Questa seconda concezione, che ritroviamo soprattutto nei Grandi Idil­li e nelle Operette morali, viene definita pessimismo cosmico perché si estende a qualsiasi forma di vita dell'universo Sono idee che ispirano Leopardi fin dalle sue prime opere: ad esempio, il destino della sorte umana è già tracciato in una Operetta morale, forse la più celebre, e cioè il Dialogo della Natura e di un Islandese (1824).
Le ragioni della vita. Ma, nelle stesse Operette e soprattutto nei Canti, Leopardi va costante­mente alla ricerca di qualcosa che possa rendere l'uomo meno infelice, almeno per un po', e trasmettergli così il coraggio di vivere. Ad esem­pio, si sofferma a lungo su quelle che anche lui (come Foscolo) chia­ma "illusioni" o "ameni inganni": la bellezza, la contemplazione della natura, l'idea dell'infinito, il ritor­nare con la memoria al passato, all'infanzia e alla giovinezza, alle speranze giovanili, anche se sono andate deluse. E discute anche degli onori umani come possono essere l'ambizione della gloria e la fama. Ma l’"inganno estremo", quello che resiste più di tutti gli altri, è l'amore. Anche a que­sto bisogna, infine, rinunciare.
La dignità. Che cosa rimane, allora? Nella Ginestra Leopardi invita i suoi simili a non piegarsi di fronte all'infelicità. Gli uomini non devono coltivare nessuna illu­sione (soprattutto, non devono credere di essere al centro dell'universo e non devono credere nel "progresso": ogni conquista del­l'uomo è solo apparente oppure viene ben presto distrutta da nuovi imprevedibili eventi). Però devono essere solidali fra di loro e lavorare duramente e instancabil­mente per contrastare l'ostilità della Natura (che è proprio una ostilità materiale: la Ginestra infatti prende spunto dall'osserva­zione delle città distrutte dalla famosa eru­zione del Vesuvio nel 79 d.C). In questo impegno e in questo sforzo contro un nemi­co comune che è invincibile gli uomini tro­veranno quella dignità che darà senso alla loro vita.
I Canti. Nei Canti il pensiero di Leopardi si traduce in altissima poesia. La raccolta che porta questo titolo uscì per la prima volta nel 1831 e nel 1835 in una seconda edizione. L'edizione definitiva è del 1845 e comprende quarantuno componi­menti. Le poesie sono disposte in ordine prevalentemente cronologico e questo per­mette di distinguere, senza voler essere trop­po rigidi, le fasi della poesia leopardiana. I testi sono tutti posteriori al 1817: in princi­pio si trovano le "canzoni civili" (All'Italia, Sopra il monumento di Dante, per esempio), le canzoni "del suicidio" (in particolare l'Ultimo canto di Saffo) e le canzoni filosofi­che. Vengono poi i "piccoli idilli" o "primi idilli", dove troviamo titoli famosissimi come L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna; a questi si aggiunge Il passero solitario, però, mentre i "piccoli idilli" furono scritti fra il 1819 e il 1821, II passero solitario è probabilmente molto più tardo. Seguono i "grandi idilli" del 1828-29: A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e poi le poesie del "ciclo di Aspasia", scritte fra il 1830 e il 1835 e ispirate dall'amore per la dama fio­rentina Fanny Targioni Tozzetti. Il libro si chiude con le poesie dell'ultimo periodo, quello napoletano, dove spiccano La gine­stra e Il tramonto della luna.
Idillio. La parola idillio viene dal greco e significa “piccola immagine, quadretto”. Nella poesia greca antica il termine indicava piccoli componimenti in versi di ambientazione pastorale, eseguiti con l’accompagnamento del flauto. Ripreso dai poeti latini, ad esempio Virgilio, il genere fu usato successivamente nella poesia italiana e rifiorì in particolare nel Settecento. Col termine idilli Leopardi indica sei poesie in endecasillabi sciolti, tra cui l’infinito tutte composte tra il 1819 e il 1821. Del modello classico il poeta riprende la brevità e la rappresentazione della vita agreste, ma lo interpreta in modo assai personale. La contemplazione della natura e dei suoi abitanti, animali e umani, è infatti solo un pretesto per esprimere “situazioni, affezioni, avventure…dell’animo”, cioè emozioni e stati d’animo.
L’endecasillabo sciolto. È il verso di undici sillabe, con accento tonico sulla penultima. L’endecasillabo sciolto è il genere che prevede una successione di endecasillabi senza rima. È una forma che inizia a diffondersi nel Cinquecento, soprattutto nel teatro, ma trova la consacrazione tra le fine del Settecento, con Parini, e il primo Ottocento con Foscolo (I Sepolcri)
Gli strani personaggi delle Operette morali. Le Operette sono ventiquattro: diciannove furono scritte nel 1824, le altre fra 1825 e 1832. Di queste ben sedici sono dialoghi secondo un modello letterario che Leopardi aveva ricavato da uno scrittore greco del II secolo d.C. Luciano. Le altre hanno forma varia e rivelano la conoscenza che Leopardi aveva di opere anche molto rare dell'antichità. I temi trattati hanno uno spessore filosofico notevole, però Leopardi li tratta con grande ricchezza inventiva e con costante ironia, cosicché la loro lettura risulta in molti casi piuttosto divertente. I personaggi dei dialoghi sono quanto mai curiosi: per esempio troviamo un Folletto e uno Gnomo, Torquato Tasso e Cristoforo Colombo o un povero Islandese sconosciu­to, delle mummie e la Natura stessa, e poi la Terra, la Luna, la Morte e persino la Moda. Sono mescolati quindi personaggi storici e del mito, uomini comuni e animali, esseri soprannaturali e concetti personificati. I loro dialoghi consentono al poeta di pro­porre in forma interessante e "letteraria" le sue riflessioni più serie, su argomenti di grande importanza per la vita dell'uomo.
Quante Lettere. Leopardi ha scritto moltissime lettere: ai famigliari, agli amici, a uomini del suo tempo con cui discuteva soprattutto di questioni letterarie e filosofi­che (e che talvolta conosceva solo per corri­spondenza). Il suo epistolario è bello per la semplicità l'immediatezza e la commozio­ne con cui trasmette i suoi sentimenti, soprattutto nelle lettere più famigliari. Ma le sue lettere sono anche molto interessanti perché, affiancandosi allo Zibaldone, ci per­mettono di seguire l'evoluzione del pensie­ro del poeta e il complesso cammino della sua vita interiore, e di conseguenza di capi­re meglio la sua opera, un'opera che illumi­na la letteratura italiana.